giovedì 15 dicembre 2016

Accertamento: i prelievi dei professionisti

Una nuova disposizione, inserita nel Decreto Fiscale durante il passaggio alla Camera, prevede per le imprese un parametro quantitativo oltre il quale scatta la presunzione di evasione per i prelievi o i versamenti di importo superiore a 1.000 euro giornalieri e a 5.000 euro mensili. Si tratta del 1° comma del corposo art. 7-quater che, rubricato “Disposizioni in materia di semplificazione fiscale”, inserisce una raffica di norme che vanno dalla riorganizzazione del calendario fiscale, alla deducibilità delle spese di viaggio dei lavoratori autonomi, agli adempimenti in tema di cedolare secca, all’obbligatorietà dell’utilizzo dell’F24 telematico, alla chiusura delle Partite IVA. Insomma, un pot-pourri di norme eterogenee tra cui, appunto, la modifica dell’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. n. 600/1973, in tema di presunzioni e utilizzo dei dati emersi durante le indagini bancarie. Nello specifico la modifica contenuta nel Decreto Fiscale prevede che i dati e gli elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni risultanti dalle indagini bancarie vengano posti come ricavi (e non più anche come compensi, dunque la presunzione non opera per i professionisti) a base delle rettifiche e degli accertamenti fiscali, se il contribuente non indica il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni «per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili». La legge, quindi, consentendo al fisco di effettuare indagini bancarie sui conti correnti, in rapporto ai dati ottenuti, può basare le proprie rettifiche del reddito e gli accertamenti fiscali. Il contribuente deve essere sempre pronto, quindi, a dimostrare la fonte dei redditi versati sul conto corrente, se non sono stati denunciati nell'annuale dichiarazione dei redditi. In pratica, un versamento non giustificato - ossia per il quale il contribuente non riesca a fornire prova della provenienza del denaro - può costituire causa di un controllo da parte del fisco. Per riassumere: i versamenti in conto corrente non hanno limiti, possono cioè essere disposti per qualsiasi importo ma a condizione che il contribuente sappia dimostrare, in caso di richiesta di chiarimenti da parte dell'Agenzia delle Entrate, da dove provengono i soldi. La materia è stata interessata da interventi pregressi del legislatore, della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione. Inizialmente, si affermava che il fisco potesse accertare maggiori ricavi sulla base di versamenti e prelevamenti bancari non giustificati facendo scattare la presunzione che trasforma il prelievo/versamento in ricavo; successivamente, con la Legge 311/2004 il legislatore ha modificato l’art. 32 del D.P.R. 600/73 sostenendo che la presunzione sui prelievi non giustificati opera anche per i professionisti; di risposta, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 228/2014, ha dichiarato incostituzionale la norma in quanto la “presunzione” prelievo non giustificato = compenso non dichiarato non vale per i professionisti ed i possessori di lavoro autonomo in generale. La Cassazione, con la pronuncia n. 16440/2016, ha affermato che non esiste più la presunzione per i lavoratori autonomi, in primis per i professionisti. Più complicata è, appunto, la disciplina dei prelievi sul conto corrente. Il problema si pone per i rapporti con il fisco quando si tratta di prelievi non giustificati, ossia quando non viene chiarito il beneficiario di tali somme. Questione che potrebbe risolversi con un bonifico, operazione che lascia sempre traccia della natura dell'accredito e del soggetto beneficiario. Quando si ha a che fare con prelievi di denaro contante, però, è necessario fare una distinzione per categorie di lavoratori.
• Per i lavoratori dipendenti non ci sono né limiti né possibilità di controlli fiscali: questi, quindi, restano liberi di effettuare prelievi dal conto senza che, un giorno, l'Agenzia delle Entrate possa chiedere loro giustificazioni sulle ragioni di detto prelievo e sullo scopo cui era destinata la somma.
• Ai professionisti, inizialmente, veniva estesa la disciplina applicabile un tempo agli imprenditori (ora riformata), disciplina secondo cui i prelievi non giustificati erano da ritenersi al pari di ricavi e, quindi, giustificavano un accertamento fiscale. Tale equiparazione però è stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale: oggi i professionisti, come i lavoratori dipendenti, sono liberi di effettuare prelievi senza dover tenere traccia del beneficiario delle somme.
• Per gli imprenditori, la norma precedente al decreto fiscale appena approvato stabiliva l'obbligo di dover sempre giustificare i prelievi in conto corrente. Significa che se un imprenditore o un professionista effettuava dei prelievi e non era in grado di indicare il beneficiario, si poteva ritenere che avesse acquistato in nero per rivendere altrettanto in nero. Oggi la norma è cambiata e fissa dei tetti: solo se tali limiti vengono superati c'è l'obbligo di fornire chiarimenti sul beneficiario dei prelievi. In pratica, unicamente per gli imprenditori viene stabilito che solo i prelievi non giustificati superiori a 1.000 euro giornalieri e comunque superiori a 5.000 euro mensili possono eventualmente causare un accertamento. Quelli inferiori a tali importi restano liberi.

mercoledì 7 dicembre 2016

Il Dlgs 135/2016: novità in tema di revisione legale dei conti

Il 5 agosto 2016 è entrato in vigore il D.Lgs. 135/2016 che attua una direttiva dell'Unione Europea concernente la revisione legale dei conti. Numerose sono le novità introdotte, che vanno dal tirocinio, alla formazione continua, alla deontologia e scetticismo professionale, all’indipendenza e obiettività, alla Relazione di revisione e giudizio sul bilancio, alle sanzioni amministrative e penali.
L’obiettivo è quello di garantire una maggiore qualità (e uniformità, all’interno della Ue) delle informazioni dei bilanci e delle relazioni che li accompagnano, anche grazie all’armonizzazione delle attività di revisione contabile.
Un tassello importante, a questi fini, è l’indipendenza (o terzietà) del revisore contabile rispetto ai processi decisionali e valutativi operati dalle imprese i cui bilanci sono sottoposti al controllo.
Il Dlgs in questione, ha introdotto modifiche importanti ad alcuni punti dell'art. 14 del Dlgs 39/2010, le quali non si applicano con riferimento agli esercizi sociali delle società sottoposte a revisione legale in corso alla data di entrata in vigore del decreto, ma si applicheranno a quei soggetti con esercizio sociale corrispondente all'anno solare e quindi in riferimento ai bilanci con chiusura al 31 dicembre 2017.
Il decreto definisce il contenuto della relazione di revisione.
In particolare, vengono introdotte importanti novità sulla relazione di revisione per colmare il gap informativo tra la mole di informazioni che il revisore analizza e quanto comunicato attraverso la relazione. L’obiettivo del legislatore è di accrescere il valore informativo della relazione oltre ad adottare formulazioni omogenee per tutti i revisori che operano nella Ue.
Le novità più importanti attengono:
-la prima riguarda la richiesta di inserimento nella relazione di revisione, di una dichiarazione su eventuali incertezze significative relative a eventi o circostanze che potrebbero sollevare dubbi significativi sulla capacità dell'impresa di continuare ad operare come un'entità in funzionamento. Occorre ricordare, però, che l'attuale principio di revisione ISA ITALIA 570, già prevede regole specifiche sulla formulazione della relazione di revisione qualora esistano significative incertezze che possano far sorgere dubbi sulla capacità dell'impresa di operare in continuità. La novità normativa si colloca, pertanto, all'interno dell'attuale panorama normativo dei principi di revisione, ma non introduce, in sostanza, particolari novità.
-la seconda novità, infine, prevede una relazione e un giudizio congiunto tra i revisori, così come stabilito dal nuovo comma 3-bis dell'art. 14 del Dlgs 39/2010. In mancanza, però, di principi professionali che regolamentino tale circostanza si dovrà attendere per l'effettiva applicazione dell'applicazione normativa.

lunedì 28 novembre 2016

La prescrizione dei crediti tributari

Di tanto in tanto nelle nostre aule di giustizia fa capolino la spinosa questione relativa alla prescrizione dei crediti incorporati in provvedimenti degli enti impositori quali, in primis, le cartelle esattoriali. In particolare, i giudici si sono spesso trovati a dover stabilire quale fosse il tempo massimo entro cui lo Stato detiene il diritto di riscuotere le somme riportate in un atto impositivo non impugnato entro i termini previsti dalla legge. La questione, che a primo acchito potrebbe sembrare banale, da molto tempo è al centro di un vivo dibattito che vede contrapposti due diversi orientamenti.
Ogni credito contributivo o erariale ha di solito prescrizione quinquennale, che può essere interrotta con l’invio di comunicazioni, atti notificati al debitore volti a sollecitare il pagamento.
La Cassazione a Sezione Unite con la sentenza n. 23397/2016 ha statuto un importante principio di diritto proprio sulla prescrizione che potrebbe avere rilevanza anche ai fini della valutazione della rottamazione dei ruoli. In breve il principio di diritto enunciato è il seguente: la mancata impugnazione di un qualunque atto impositivo non comporta l’allungamento del termine prescrizionale, al contrario del diritto di credito contenuto in una sentenza passata in giudicato, che invece si prescrive in dieci anni. Si applica quindi il principio secondo il quale la scadenza del termine stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo, o comunque di riscossione coattiva, produce solo l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito senza determinare l’effetto della cosiddetta “riconversione” del termine di prescrizione breve, eventualmente previsto, in quello ordinario.
Il cuore del contrasto attiene alla possibilità di applicazione analogica del disposto di cui all'art. 2953 c.c. alle cartelle esattoriali notificate dall'agente della riscossione, secondo cui: «I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni».
L'orientamento favorevole all'assoggettamento della cartella esattoriale al termine di prescrizione decennale fa leva sull'intangibilità della pretesa creditoria, a seguito di mancata opposizione, sostenendo che in tali casi il termine diventi di dieci anni.
Il concetto sostanzialmente sarebbe il seguente: il termine prescrizionale inferiore ai dieci anni previsto dalle disposizioni speciali intanto manterrebbe il proprio valore in quanto il provvedimento che lo contiene (sia esso l'atto impositivo o la cartella esattoriale) non sia divenuto inoppugnabile. Successivamente, al pari di un provvedimento giurisdizionale, sarebbe assoggettato ad estinzione per prescrizione trascorsi dieci anni.
In tale indirizzo giurisprudenziale, per vero, non si registra una vera e propria affermazione sulla “metamorfosi” dell'atto amministrativo in provvedimento giurisdizionale, con ciò consentendo un'applicazione diretta (e non analogica) dell'art. 2953 c.c..
L'opposta tesi, maggioritaria, prende le mosse dai principi generali dell'ordinamento ed analizza compiutamente il ruolo della pubblica amministrazione nelle procedure esecutive e la natura giuridica dell'atto impositivo o della riscossione.
Secondo questa giurisprudenza le cartelle o i ruoli non opposti non perdono, in forza della mera acquiescenza del contribuente il proprio carattere di atto amministrativo e, men che meno, si tramutano in titolo giudiziale. La differenza è, infatti, evidente: il provvedimento amministrativo è emanato da una pubblica amministrazione e non è soggetto ad un controllo giurisdizionale, se non in una eventuale sede d'impugnazione. Orbene, nell'ambito di un rapporto trilaterale (ente – contribuente – giudice), nel quale il ruolo del giudice sia quello di controllore delle pretese dell'Ente pubblico, non è possibile accordare al provvedimento amministrativo che instaura un rapporto bilaterale la medesima efficacia del giudicato.
Le Sezioni unite, risolvendo il contrasto giurisprudenziale, hanno innanzitutto affermato che la prescrizione decennale prevista dall'art. 2953 del Codice civile decorre dal passaggio in giudicato della sentenza e l'eventuale conversione della prescrizione breve in quella decennale trova il proprio fondamento proprio nella sentenza stessa. Sia la cartella di pagamento sia gli altri titoli che legittimano la riscossione coattiva, compreso anche l'accertamento esecutivo, non sono idonei ad acquisire efficacia di giudicato. In conclusione, quindi, la Cassazione ha affermato il principio secondo cui la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto produce solo l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, ma non determina anche la conversione del termine di prescrizione breve in ordinario di dieci anni. In altri termini, la circostanza che una intimazione di pagamento erariale non sia più suscettibile di contestazione perché non impugnata in tempo utile, non può in alcun modo giustificare il prolungamento del periodo di prescrizione previsto per la specifica tipologia di imposizione.
Tale principio si applica per tutti gli atti di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero dei crediti erariali, nonché per le sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie.
Si legge nella sentenza n. 23397/2016 che una diversa conclusione, a volte paventata da alcuni tribunali, rappresenta una erronea e frettolosa interpretazione dei principi espressi dalla Suprema Corte sul tema. In realtà, i giudici di legittimità, pur confermando in precedenti occasioni il principio di immodificabilità dell'atto impositivo non impugnato, non hanno mai inteso equiparare i provvedimenti emessi dalla P.A. alle sentenze passate in giudicato onde attribuire anche ai primi gli effetti di cui all'art. 2953 c.c.
Non va infine dimenticato che la legittimità del sistema di riscossione degli introiti statali passa anche dal riconoscimento dei diritti dei soggetti chiamati ad eseguire i pagamenti. In tale ottica, è difficile legittimare la lettura di una norma che in concreto produce l'effetto di imbrigliare i contribuenti in lunghissimi periodi di incertezza a tutto vantaggio di Enti istituzionali incapaci di operare in tempi ragionevoli.


giovedì 3 novembre 2016

Le dichiarazioni integrative: il D.L. 193/2016 di Giulia Maria Rijillo

Nella compilazione della dichiarazione dei redditi è possibile che il contribuente possa compiere errori di omissioni di vario genere. In tali casi, l'art. 2, commi 8 e 8 bis, del DPR. n. 322 del 22/07/1998, riconosce la possibilità che detti errori od omissioni vengano corretti mediante successive dichiarazioni c.d. Integrative. Bisogna però distinguere a seconda che le rettifiche avvengano a sfavore (in malam partem) oppure a favore del contribuente (in bonam partem).
La dichiarazione integrativa a "sfavore" è quella che può essere presentata per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l'indicazione di un minor reddito e, comunque, di un minor debito d'imposta o di un maggior credito.
Tale rettifica pro fisco può essere operata, ai sensi dell'art. 2, comma 8, del DPR. n. 322/1998, entro il termine per l'accertamento di cui all’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973 (ordinariamente, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione). Di contro, la dichiarazione integrativa "a favore" è quella che può essere presentata per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l'indicazione di un maggior reddito e, comunque, di un maggior debito d'imposta o di un minor credito. Diversamente dalla rettifica pro fisco, quella pro contribuente, prima del D.L. n. 193/2016, sarebbe dovuta essere operata, entro il termine per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo, con la precisazione che il credito di imposta che dovesse dalla stessa emergere può essere utilizzato in compensazione ai sensi del D. Lgs. n. 241/1997. Con il Dl del 22 ottobre 2016 n. 193, collegato alla manovra fiscale 2017, è stato, finalmente, superato il il "dualismo" fino ad oggi esistente tra la dichiarazione integrativa a favore da quella in sfavore del contribuente dal punto di vista dei termini di presentazione. Il nuovo comma 8 fissa il principio che la dichiarazione (redditi, Irap e sostituti) risulta trattabile sia a sfavore che a favore del contribuente entro i termini di decadenza dell'azione di accertamento. Resta salva l'applicazione delle sanzioni e la possibilità di ricorrere all'istituto del ravvedimento operoso secondo quanto previsto dall'art. 13 del Dlgs 472/1997. Il nuovo comma 8-bis prevede specifiche disposizioni sulla compensazione in quanto concede al contribuente la possibilità di utilizzare in compensazione il credito emergente dalla dichiarazione integrativa presentata entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo; qualora l’integrativa sia presentata oltre il termine di presentazione della dichiarazione riferita al periodo d’imposta successivo, la compensazione è consentita esclusivamente per eseguire il versamento di debiti maturati a partire dal periodo d’imposta successivo a quello di presentazione della dichiarazione integrativa. Si rileva che il concetto di “debito maturato” non è lo stesso di “debito relativo al periodo d'imposta”. Ad ogni modo se ne ricava che il credito che emerge dalla dichiarazione integrativa a favore è liberamente compensabile se la stessa viene presentata entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo successivo, mentre se l'integrativa viene presentata dopo, la compensazione incontra delle limitazioni.
Anche ai fini IVA viene introdotta l’opportunità di presentare una dichiarazione integrativa, sia a favore che a sfavore, entro i termini di decadenza dell’azione di accertamento (nuovo comma 6-bis, art. 8 del DPR 322/1998). Viene previsto, però, che solo il credito che emerge dalla dichiarazione integrativa, presentata entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, è utilizzabile in compensazione o può essere portato in detrazione in sede di liquidazione periodica o di dichiarazione annuale ed eventualmente, si può richiedere a rimborso previa verifica dei requisiti di cui all’art. 30 del DPR 633/1972. Invece, in caso di presentazione della dichiarazione integrativa a favore oltre il termine di presentazione della dichiarazione riferita al periodo successivo, il credito IVA emergente deve essere utilizzato fuori dichiarazione, in quanto tale ipotesi non è contemplata nel nuovo comma 6-ter, cosa alquanto assurda una volta affermato per legge il principio di ritrattabilità della dichiarazione a favore del contribuente nei termini di decadenza dell'accertamento.
Infine, è stata introdotta un’importante novità riguardante gli effetti della presentazione della dichiarazione integrativa: dalla data di presentazione di tale dichiarazione, vengono postergati i termini di decadenza dell’azione di accertamento, per i soli elementi oggetto dell’integrazione.

mercoledì 26 ottobre 2016

Revisione Contabile: il Dlgs 135/2016

Con l’entrate in vigore del Dlgs 135/2016 che, in attuazione della Direttiva 2014/56/Ue, ha modificato il decreto 39/2010, vengono messe, ancor di più, in risalto le indicazioni contenute all’interno del principio Isa Italia 230 il quale, oltre a definire gli obiettivi, precisa la forma, l’organizzazione, i contenuti e le modalità di custodia dei documenti dei professionisti incaricati della revisione.
L’Isa Italia 230, evidenziandone la natura e la finalità, afferma che la documentazione della revisione contabile fornisce:
• evidenza degli elementi a supporto delle conclusioni del revisore sul raggiungimento degli obiettivi generali;
• evidenza che il lavoro di revisione sia stato pianificato e svolto in conformità ai principi di revisione ed alle disposizioni di legge e regolamentari applicabili;
• assistenza al team di revisione nella pianificazione e nello svolgimento della revisione;
• assistenza ai membri del team di revisione responsabili della super visione, nel dirigere e
supervisionare il lavoro di revisione e nell’assolvere le proprie responsabilità di riesame del lavoro in conformità al principio di revisione internazionale (ISA Italia) n. 220;
• permette al team di revisione di dare conto dell’attività svolta;
• mantiene una evidenza documentale degli aspetti che mantengono la loro rilevanza nei futuri incarichi di revisione;
• permette lo svolgimento del riesame della qualità e delle ispezioni in conformità al principio internazionale sul controllo della qualità n. 1 (ISQC Italia 1) ovvero a disposizioni nazionali che prevedano regole stringenti almeno quanto quelle contenute nell’ISQC Italia 1;
• permette l’effettuazione di ispezioni da parte di soggetti esterni secondo quanto previsto da leggi, regolamenti o da altre disposizioni applicabili.

La forma, il contenuto e l’ampiezza della documentazione della revisione dipendono da fattori quali:
• la dimensione e la complessità dell’impresa;
• la natura delle procedure di revisione da svolgere;
• i rischi identificati di errori significativi;
• la rilevanza degli elementi probativi acquisiti;
• la natura e la portata delle eccezioni identificate;
• la necessità di documentare una conclusione o gli elementi a supporto di una conclusione
• non facilmente desumibili sulla base della documentazione del lavoro svolto o degli
elementi probativi acquisiti;
• la metodologia di revisione e gli strumenti utilizzati.

Per quanto riguarda la tenuta delle carte da lavoro, questa può essere formalizzata su supporto cartaceo, elettronico o di altro tipo, purchè sia chiaramente identificabile il nome dell’azienda, il bilancio d’esercizio in esame, la firma del revisore e la data di verifica. Inoltre è necessario che la numerazione deve seguire l’indice stabilito nel dossier, indicando il titolo del documento e definire il collegamento tra le carte di lavoro e la corrispondente scheda riepilogativa.
Generalmente viene creato un auditfile con le carte di lavoro correnti e permanenti. Mentre le prime sono relative alle singole voci di bilancio e alle informazioni relative alla verifica in corso, le seconde si riferiscono a informazioni societarie e fiscali di carattere generale, le quali vengono aggiornate in base agli eventi. Il revisore può considerare utile preparare e conservare nella documentazione della revisione, un riepilogo (talvolta denominato “memorandum conclusivo”) con la descrizione degli aspetti significativi identificati durante la revisione e del modo in cui sono stati fronteggiati, o con il rinvio ad altra documentazione di revisione che fornisca tali informazioni. Detto riepilogo può facilitare riesami e ispezioni efficienti ed efficaci della documentazione della revisione, in particolare nei casi di revisioni contabili ampie e complesse. Inoltre, la preparazione di un tale riepilogo può aiutare il revisore nel tenere in considerazione aspetti significativi. Può altresì aiutare il revisore a considerare se, alla luce delle procedure di revisione svolte e delle conclusioni raggiunte, vi sia un obiettivo, contenuto in un principio di revisione applicabile nelle circostanze, che egli non è in grado di raggiungere e che gli impedirebbe la realizzazione degli obiettivi generali di revisione.
Per quanto riguarda le tempistiche, il principio prevede che il revisore definisca direttive e procedure per il tempestivo completamento della raccolta della documentazione della revisione nella versione definitiva. Un appropriato limite di tempo entro il quale completare la raccolta della documentazione della revisione nella versione definitiva è normalmente non superiore a 60 giorni dalla data della relazione di revisione. Il completamento della raccolta della documentazione della revisione nella versione definitiva successivamente alla data della relazione di revisione risponde ad esigenze di sistemazione formale della stessa e non implica lo svolgimento di nuove procedure di revisione né l’elaborazione di nuove conclusioni. Durante la raccolta delle carte di lavoro nella versione definitiva, possono essere effettuate modifiche alla documentazione della revisione purché siano di natura formale. Esempi di tali modifiche includono:
• cancellare o eliminare la documentazione superata;
• classificare le carte di lavoro, ordinarle ed evidenziare i rinvii tra le stesse;
• firmare, al loro completamento, le checklist relative alla raccolta delle carte di lavoro;
• documentare gli elementi probativi acquisiti dal revisore, esaminati e condivisi con i membri del team di revisione prima della data della relazione di revisione.
La predisposizione tempestiva della documentazione della revisione, sufficiente ed appropriata, contribuisce a migliorare la qualità di quest’ultima e rende più efficace il riesame e la valutazione degli elementi probativi raccolti e delle conclusioni raggiunte prima dell’emissione della relazione di revisione.
Il principio Isa Italia 230 precisa anche che le carte di lavoro devono essere conservate per dieci anni dalla relazione di revisione e devono essere custodite assicurandone la riservatezza, la sicurezza, la rintracciabilità e l’integrità.

lunedì 17 ottobre 2016

Il ravvedimento operoso: dichiarazioni a sfavore

Con la circolare n. 42/E, l’Agenzia delle entrate offre una panoramica sui vantaggi previsti in termini di riduzione delle sanzioni alla luce delle modifiche introdotte dalla Legge di Stabilità per il 2015 (Legge n. 190/2014) e dal Dlgs n. 158/2015 di riforma del sistema sanzionatorio. L’Agenzia ha fornito ulteriori chiarimenti in ordine all’istituto del ravvedimento operoso, in particolare per quanto concerne gli errori dichiarativi, ossia errori inerenti al contenuto delle dichiarazioni dei redditi, nonché al momento di invio dello stesso modello dichiarativo (oltre i termini ordinari). La prima parte della circolare è dedicata alla possibilità di regolarizzare le dichiarazioni in base a delle tempistiche di riferimento ed è per questo, quindi, che le sanzioni che il contribuente paga se rileva l’errore entro 90 giorni sono ridotte e differentemente modulate in base alla tipologia di violazione (errore, mancata presentazione). Infatti, con la revisione della disciplina del ravvedimento assume un’importanza significativa la distinzione tra dichiarazione integrativa e la dichiarazione tardiva. La prima è presentata entro 90 giorni dalla scadenza dei termini ordinari, al fine di correggere il contenuto della dichiarazione originaria (presentata entro i termini). La seconda, al contrario, costituisce il primo modello dichiarativo presentato dal contribuente, ma oltre la scadenza dei termini previsti dal Legislatore. La dichiarazione integrativa è funzionale alla correzione di errori:
• non rilevabili in sede di controllo automatizzato o formale;
• rilevabili in sede di controllo automatizzato o formale.
Nel primo caso, la riduzione prevista dall’istituto del ravvedimento si applica sulla sanzione di cui all’art. 8 del D.Lgs. n. 471/1997 (tale disposizione disciplina le violazioni di carattere formale relative al contenuto e alla documentazione delle dichiarazioni che non integrino un’ipotesi di infedele dichiarazione). A titolo esemplificativo se il contribuente, per correggere la dichiarazione originaria, presenta una dichiarazione integrativa/sostitutiva entro 90 giorni dalla scadenza ordinaria per correggere l’omessa indicazione di un reddito da locazione, la sanzione da considerare per la regolarizzazione è quella di cui al comma 1 dell’art. 8, che va da un minimo di 250 euro fino a un massimo di 2.000 euro. Ovviamente è necessario regolarizzare anche l’eventuale omesso versamento.
Nella seconda ipotesi, invece, la sanzione sulla quale quantificare la riduzione (nell’ambito del ravvedimento operoso) è quella per omesso versamento, pari al 30% di ogni importo non versato (art. 13 del D.Lgs. 471/1997).
Per quanto concerne la dichiarazione tardiva, la sanzione in misura ordinaria è pari a 250 euro(art. 1, D.Lgs. n. 471/1997), in assenza di debito d’imposta. Rimane ovviamente ferma la sanzione per omesso versamento nel caso in cui alla tardività si aggiunga anche il carente o tardivo versamento del tributo che emerge dalla dichiarazione medesima. Su tali importi va quantificata la riduzione della sanzione prevista nell’ambito dell’istituto del ravvedimento operoso. Ancora con riferimento all’ipotesi della dichiarazione tardiva, l’Agenzia ha precisato che non ha alcuna rilevanza la sanzione prevista per la presentazione della dichiarazione entro il termine per la presentazione della dichiarazione del periodo d’imposta successivo, in quanto in tale circostanza si fa riferimento alla fattispecie della dichiarazione omessa, ben diversa rispetto a quella della dichiarazione tardiva.
La circolare, continua prendendo in esame la dichiarazione integrativa presentata oltre i 90 giorni dalla scadenza ordinaria dei termini e la dichiarazione omessa (ossia la dichiarazione originaria presentata addirittura oltre i 90 giorni dalla scadenza ordinaria dei termini per la presentazione della dichiarazione dei redditi). In relazione alle dichiarazioni integrative, anche in questo caso siamo di fronte a due ipotesi diverse:
• correzioni di errori/omissioni non rilevabili
• correzione di errori/omissioni rilevabili
Con riferimento alla prima ipotesi, le violazioni in questione integrano in genere la violazione di infedele dichiarazione. La sanzione ordinaria va dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta. Su tale importo va quantificata la sanzione ridotta (in caso di ravvedimento). Per quanto concerne gli acconti per il periodo d’imposta successivo, se la dichiarazione integrativa viene presentata entro i termini per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, non è applicabile alcuna sanzione su eventuali maggiori acconti da versare a seguito della dichiarazione integrativa. Come infatti precisato dall’Agenzia, se l’importo precedentemente versato per gli acconti è commisurato a quello determinato nella dichiarazione vigente al momento del versamento, il contribuente non potrà essere assoggettato a sanzione per carente versamento (in tal senso devono intendersi superati i chiarimenti resi con la circolare n. 47/E del 18 giugno 2008). Con riferimento alla seconda ipotesi (dichiarazione integrativa per correggere errori rilevabili in sede di controllo automatizzato o formale), la sanzione ordinaria rimane quella relativa all’omesso versamento, ossia 30% di ogni importo non versato. Su tale importo va calcolata la riduzione nell’ipotesi del ravvedimento.
Nel caso in cui non siano dovute imposte a seguito della presentazione della dichiarazione, la sanzione in misura ordinaria va da un minimo di 250 euro a un massimo di euro 1.000. Qualora invece siano dovute imposte, la sanzione ordinaria applicabile va dal 120% al 240% delle imposte da versare.
Nell’ipotesi in cui la dichiarazione omessa venga presentata entro i termini per la presentazione della dichiarazione dei redditi per il periodo d’imposta successivo:
• se non sono dovute imposte la sanzione va da 150 a 500 euro;
• se sono dovute imposte la sanzione va dal 60% al 120% delle imposte da versare.
L’Agenzia precisa inoltre che, nell’ipotesi di presentazione della dichiarazione oltre i 90 giorni dalla scadenza dei termini ordinari, le sanzioni non possono essere spontaneamente regolarizzate mediante l’istituto del ravvedimento operoso.

giovedì 6 ottobre 2016

Le B-Corp italiane: le Società Benefit


Con la Legge di Stabilità (in vigore dal 1° gennaio scorso) è stata introdotta nel nostro ordinamento la figura della c.d. Società Benefit – SB.
Tale figura prende forma dal modello statunitense delle benefit corporation (cd. B-Corp) e l’Italia è l’unico Paese europeo ad aver disciplinato tale fenomeno. Le SB, pur essendo for-profit, intendono coniugare l’obiettivo del profitto con un impatto positivo con il contesto in cui operano. Si tratta, infatti, di società che perseguono lo scopo di lucro utilizzando il profitto come mezzo per creare un beneficio che si ripercuote anche su altre categorie di soggetti, garantendo allo stesso tempo all’impresa una maggiore redditività. In sostanza, lo scopo è quello di produrre benessere nell’ambiente in cui la società opera e, quindi, di misurare i risultati dell’impresa (e dei suoi amministratori) non solo sotto il profilo economico e finanziario, ma anche sotto quello del raggiungimento degli obiettivi di qualità che la B-Corp ha dichiarato prioritari.
Ma come si diventa società benefit? Dal punto di vista formale la legge non ha creato un nuovo tipo societario, potendo la società benefit assumere la veste giuridica di una qualsiasi società prevista dal codice civile, come società di persone, società di capitali o cooperative, ma ha delineato un quadro normativo in cui la duplice finalità del profitto e del beneficio comune si declina nell’oggetto sociale, nella governance dell’impresa e nell’enforcement. Dal punto di vista sostanziale si tratta di società che, ovviamente, perseguono lo scopo di lucro utilizzando il profitto come mezzo per creare un beneficio, ma si parla però di un beneficio che si ripercuote anche su altre categorie di soggetti, quali lavoratori, clienti, fornitori, creditori, finanziatori, pubblica amministrazione e società civile, garantendo allo stesso tempo all’impresa una maggiore redditività e anche la possibilità, aggiungendo alla propria denominazione l’appellativo “benefit”, di rendere noto al mercato, con un’informazione legalmente riconosciuta, che la sociètà stessa persegue finalità non solo dettate dal proprio egoistico profitto, ma anche di natura altruistica. La legge stabilisce poi che la società benefit deve indicare nell’ambito del proprio oggetto sociale le finalità specifiche di beneficio comune che intende perseguire. Tale disposizione è volta a consentire espressamente alla società di attribuire stabilità e certezza a un progetto imprenditoriale in cui la massimizzazione del profitto non costituisce l’unico obiettivo dell’attività aziendale. Accanto alla previsione dell’indicazione nell’atto costitutivo delle finalità di beneficio comune che la società intende perseguire, la legge si preoccupa di individuare gli specifici obblighi in cui incorrono gli amministratori della società benefit e le relative responsabilità. A livello pubblicitario, inoltre, deve essere annualmente predisposta, in occasione del bilancio d’esercizio, una relazione concernente il perseguimento del beneficio comune, dalla quale emergano :
• La descrizione degli obiettivi specifici;
• Le modalità attuative;
• Le azioni realmente intraprese;
• La valutazione dell’impatto generato;
• La descrizione degli obiettivi futuri.
Inoltre, la società benefit, fermo restando quanto previsto dal codice civile, deve individuare il soggetto o i soggetti responsabili cui affidare funzioni e compiti volti al perseguimento delle finalità di beneficio comune. L’organo sul quale grava l’obbligo di individuazione del soggetto o dei soggetti responsabili è l’organo amministrativo della società. La legge delinea, infine, il quadro dei controlli delle società benefit prevedendo un’autovalutazione della società sull’impatto generato dalla propria attività sugli interessi dei diversi soggetti e attribuendo all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato poteri sanzionatori nei confronti delle società che non perseguono le finalità di beneficio comune. E’ opportuno sottolineare, inoltre, che la disciplina non dispone, per queste società, alcun particolare vantaggio come benefici fiscali, sgravi contributivi, agevolazioni finanziarie o deroghe all’ordinaria disciplina del diritto societario.
Da un punto di vista pìù generale, infine, notiamo come le SB prendono forma in un contesto caratterizzato da un ampio dibattito, a livello comunitario e internazionale, su come affermare una nuova concezione di business, in cui il progresso sociale sia integrato nel processo di sviluppo economico delle imprese. Questo dibattito muove dall’intuizione per cui temperare la logica del profitto, bilanciando l’interesse dei soci con quello degli altri stakeholders, non costituisce un vincolo per le imprese, ma un’opportunità di differenziazione e crescita. L‘attenzione posta dai governi sulla necessità di strategie integrate per affrontare le sfide imposte dalla crisi, dai cambiamenti climatici e demografici, dall’impoverimento delle risorse naturali ha accresciuto la consapevolezza per cui l’uso responsabile delle risorse umane e naturali necessarie al processo produttivo e la capacità di soddisfare anche istanze sociali costituiscono un imperativo al quale l’impresa che intenda rimanere competitiva sul mercato non può sottrarsi. Con le misure introdotte dalla legge di Stabilità per il 2016, l’Italia rappresenta il primo Stato europeo ad aver riconosciuto uno status giuridico proprio per le società che utilizzano il profitto anche come strumento per la creazione di valore sociale e, per queste ragioni, l’ingresso delle Società Benefit nel nostro ordinamento rappresenta una vera e propria rivoluzione economica.

martedì 20 settembre 2016

L'UNIVERSO DELLE STARTUP di Giulia Maria Rijillo

Al fine di promuovere la crescita sostenibile, lo sviluppo tecnologico e l’occupazione, in particolare giovanile, dal 2012 il Governo è impegnato nella messa in opera di una normativa organica volta a favorire la nascita e la crescita dimensionale di nuove imprese innovative ad alto valore tecnologico. Pietra miliare di questa iniziativa è il Decreto Legge 179/2012, noto anche come “Decreto Crescita 2.0”, convertito dal Parlamento con Legge del 18 dicembre 2012 n. 221. Tale norma si riferisce alle startup innovative e come sappiamo una startup nasce sempre da un’idea, da una serie di processi che si susseguono e mutuano dal comune denominatore dell’idea di base. L’idea diventa progetto quando:
• se ne comprende la possibilità di utilizzo pratico, reale ed economico (s’individua, in sostanza, la necessità di un bene o un servizio e l’idea si concreta in un’offerta chiara);
• se ne traccia un mercato potenziale e un target specifico (più o meno ampio, più o meno complesso da raggiungere, ma sempre necessario);
• si individua il più classico e semplice dei revenue model (il momento in cui e la ragione per cui il denaro transa dal cliente al fornitore, nel minor tempo possibile, poiché il tempo è denaro);
• si comprende che i ricavi attesi sono maggiori dei costi necessari a generare quegli stessi ricavi (marginalità industriale ed operativa positiva, formula della sostenibilità, economicità e profittabilità);
• si concilia tutto ciò con l’ambiente normativo circostante (per esempio, fiscale, amministrativo, previdenziale e tributario), cercando di non tralasciare gli ormai imprescindibili requisiti etici e/o ambientali (per esempio, bio, solidale, green, high tech…).
Sembra facile a dirsi, ma è molto difficile a farsi. Da un punto di vista più tecnico e specifico, infatti, la normativa si riferisce esplicitamente alle startup innovative per evidenziare che il target non include qualsiasi impresa di nuova costituzione ma soltanto quelle che operano nel campo dell’innovazione tecnologica. Alle misure agevolative possono accedere le società di capitali le cui azioni o quote rappresentative del capitale sociale non sono quotate su un mercato regolamentato o su un sistema multilaterale di negoziazione, e che sono in possesso dei seguenti requisiti:
• sono nuove o comunque costituite da meno di 5 anni;
• hanno sede principale in Italia, o in altro Paese membro dell’Unione Europea o in Stati aderenti all’accordo sullo spazio economico europeo, purché abbiano una sede produttiva o una filiale in Italia;
• presentano un fatturato annuo inferiore a 5 milioni di euro;
• non distribuiscono e non hanno distribuito utili;
• hanno come oggetto sociale esclusivo o prevalente lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico;
• non sono costituite da fusioni, scissioni societarie o a seguito di cessione d’azienda o di ramo di azienda;
• infine, il contenuto innovativo dell’impresa è identificato con il possesso di almeno uno dei seguenti tre criteri:
1. almeno il 15% del maggiore tra fatturato e costi annui è ascrivibile ad attività di ricerca e sviluppo;
2. la forza lavoro complessiva è costituita per almeno 1/3 da dottorandi, dottori di ricerca o ricercatori, oppure per almeno 2/3 da soci o collaboratori a qualsiasi titolo in possesso di laurea magistrale;
3. l’impresa è titolare, depositaria o licenziataria di un brevetto registrato oppure titolare di un programma per elaboratore originario registrato.
Il Ministero dello Sviluppo Economico, inoltre, per sostenere lo sviluppo delle startup innovative introduce delle misure di agevolazione applicabili per 5 anni dalla loro data di costituzione:
• potranno redigere l’atto costitutivo e le sue successive modifiche anche mediante un modello standard tipizzato facendo ricorso alla firma digitale;
• non dovranno pagare il diritto annuale dovuto in favore delle Camere di Commercio, nonché i diritti di segreteria e l’imposta di bollo;
• per quelle costituite in forma di s.r.l. è consentito creare categorie di quote dotate di particolari diritti, emettere strumenti finanziari partecipativi o offrire al pubblico quote di capitale comportando così deroghe fondamentali alla disciplina societaria ordinaria avvicinandole a quella della s.p.a.;
• in caso di riduzione del capitale sociale di oltre un terzo, il termine per il risanamento viene posticipato al secondo esercizio successivo;
• esonero dell’obbligo di opposizione del visto di conformità per compensazione dei crediti IVA;
• disciplina del lavoro tagliata su misura in quanto hanno la possibilità di assumere personale con contratti a tempo determinato della durata massima di trentasei mesi con opzione di rinnovo per altri 12;
• facoltà di remunerare il personale in modo flessibile soprattutto perché possono essere retribuiti anche attraverso strumenti di partecipazione al capitale sociale (come lo stock option), e i fornitori di servizi esterni attraverso schemi di work for equity;
• introduzione di incentivi fiscali per investimenti provenienti da persone fisiche (detrazione Irpef del 19% dell’investimento fino a un massimo investito pari a 500mila euro) e giuridiche (deduzione dell’imponibile Ires del 20% dell’investimento fino a un massimo investito pari a 1,8 milioni di euro);
• fail-fast, ovvero introduzione di procedure volte a rendere più rapido e meno gravoso il processo che si mette in moto nel caso in cui la startup non decolli, annoverandole, quindi, tra i soggetti non fallibili. Tale intervento disciplina il fenomeno della crisi aziendale, tenendo conto dell’elevato rischio economico assunto da chi decide di fare impresa investendo in attività ad alto livello d’innovazione. La scelta è quella di sottrarre le startup alle procedure concorsuali vigenti, prevedendo il loro assoggettamento, in via esclusiva, alla disciplina della gestione della crisi da sovra-indebitamento, applicabile ai soggetti non fallibili che non prevede la perdita di capacità dell’imprenditore ma la mera segregazione del patrimonio destinato alla soddisfazione dei creditori. Per facilitarne l’avvio si prevede che, una volta decorsi dodici mesi dall’iscrizione nel Registro delle imprese del decreto di apertura della procedura liquidatoria, i dati relativi ai relativi soci non siano più accessibili al pubblico ma esclusivamente all’autorità giudiziaria e alle autorità di vigilanza.
Nel nostro Paese, il numero di startup innovative continua a crescere a ritmi sostenuti e a oggi risultano iscritte, a livello nazionale, ben 6.235 imprese (+21,2% rispetto a fine 2015). Si tratta di giovani imprese che nell’ultimo anno hanno impiegato prevalentemente fino a quattro addetti (78,5%), operano nei "servizi’ (75,4%) e hanno un valore della produzione che per il 65,4% non supera i 100 mila euro. A livello di governance, il 13,2% ha una compagine societaria a prevalenza femminile mentre le startup coordinate in maggioranza dai giovani (under 35) rappresentano ben il 21,6% del totale, ciò a dimostrazione del fatto che le giovani imprese, in un momento di staticità dell’economia a livello generale, rappresentano una grande risorsa per dare nuovo impulso al mercato e accelerarne il cambiamento.

venerdì 29 luglio 2016

Aumento di capitale nelle s.r.l. di Giulia Maria Rijillo

Cosi come nelle s.p.a., due sono le forme di aumento di capitale previste dalla legge: quello a pagamento e quello nominale tramite imputazione di riserve a capitale. Quest’ultimo è disciplinato in modo sostanzialmente identico alle s.p.a.. Più articolata e, in taluni punti diversa da quella delle s.p.a., è la disciplina dell’aumento di capitale a pagamento. L’articolo 2481-bis, comma 1, del Codice Civile dispone che in caso di decisione di aumento del capitale sociale mediante nuovi conferimenti, spetta ai soci il diritto di sottoscriverlo in proporzione delle partecipazioni da essi possedute. L’atto costitutivo può prevedere che l’aumento di capitale possa essere attuato anche mediante offerta di quote di nuova emissione a terzi; in tal caso spetta ai soci che non hanno consentito alla decisione il diritto di recesso a norma dell’art. 2473. Il diritto così spettante a ciascun socio - che può denominarsi "diritto di opzione" avendo la medesima natura del corrispondente diritto spettante a tutte le azioni nelle s.p.a. - non può essere escluso o limitato dalla maggioranza dell'assemblea. A differenza di quanto previsto nelle s.p.a., non sussistono ragioni, ipotesi o esigenze della società che consentano alla maggioranza, in mancanza di diversa disposizione statutaria, di sacrificare il diritto di opzione spettante ai soci. La maggioranza, in altre parole, non può disporre in alcuna circostanza del diritto di opzione spettante ai singoli soci, nemmeno se ciò risultasse più vantaggioso nell'interesse della società. Una deliberazione di aumento di capitale che escludesse o limitasse il diritto di opzione, sempre secondo il regime legale, sarebbe invalida e impugnabile, in quanto presa "non in conformità della legge". Da questo punto di vista, si può dire che la disciplina dettata in tema di s.r.l. è più rigida di quella delle società azionarie, nelle quali la maggioranza dei soci può escludere o limitare il diritto di opzione in determinate ipotesi di aumento di capitale (con conferimenti in natura o con offerta ai dipendenti) oppure qualora lo esiga l'interesse della società, a fronte di alcune tutele di carattere informativo e di mantenimento del valore delle partecipazioni già emesse. Pertanto, l’aumento a pagamento del capitale sociale può essere destinato alla sottoscrizione di terzi non soci solo nel caso in cui vi sia un’apposita clausola all’interno dello statuto sociale oppure se la decisione viene presa, all’interno dell’assemblea, all’unanimità dei soci. Secondo la massima n. 156, recentemente elaborata dal Consiglio notarile di Milano, qualsiasi tipologia di aumento del capitale sociale con esclusione o limitazione del diritto di sottoscrizione dei soci è dunque soggetta a questa regolamentazione. La massima in questione inoltre afferma che la clausola prevista dall’art. 2481-bis, circa l’esecuzione dell’aumento con modalità diverse da quella della sua offerta in sottoscrizione a ciascun socio, in ragione della rispettiva quota di partecipazione al capitale sociale può attribuire il potere di escludere o limitare il diritto di opzione alla maggioranza dei soci in via discrezionale, senza la necessaria verifica di un’oggettiva esigenza della società e senza l’obbligo di determinare e giustificare un sovrapprezzo per l’emissione delle partecipazioni di nuova emissione; può circoscrivere tale potere ad alcuni casi particolari e può altresì prevedere tutele ulteriori a favore dei soci di minoranza, anche mediante rinvio alla disciplina dettata in tema di Spa.

martedì 21 giugno 2016

L'interpello per i nuovi investimenti.

L’Agenzia delle Entrate ha emanato di recente una circolare, la numero 25/E, con cui è intervenuta per chiarire le modalità di presentazione dell’istanza di interpello per i nuovi investimenti.
La norma istitutiva è il D.Lgs. 147/2015 e il successivo D.M. del 29/4/2016, che hanno introdotto l’opportunità per le imprese che devono effettuare investimenti di un certo rilievo di presentare all’AE una richiesta di parere sulla disciplina fiscale di talune ipotesi di talune operazioni straordinarie.
L’AE nella circolare in questione si è occupata dei presupposti soggettivi e oggettivi che disciplineranno l’interpello tanto per le società con la sede nel territorio dello Stato, quanto per le imprese non residenti che intendono effettuare investimenti.
I soggetti legittimati a presentare le istanze sono tanto le imprese che svolgono attività commerciali quanto tutti coloro che sono interessati a realizzare degli investimenti volti ad avviare nuove attività imprenditoriali o a partecipare ad attività già esistenti.
Quindi, potranno presentare l’interpello: le società, le persone fisiche e gli enti non commerciali.
Per quanto riguarda il piano di investimento sono previste alcune peculiarità; questo deve essere realizzato nel territorio dello Stato, deve essere di valore pari o superiore a 30 milioni di euro e deve comportare delle ricadute occupazionali.
Tra le attività oggetto di investimento per cui si ricorrerà all’interpello sono comprese: l’avvio di nuove iniziative economiche e/o il loro ampliamento, la ristrutturazione dell’attività economica in seguito ad una crisi aziendale ( anche facendo ricorso agli appositi istituti deflattivi ), oppure la modifica dell’attività produttiva di un’impresa esistente.
L’interpello potrà riguardare anche le operazioni riguardanti acquisizioni di partecipazioni in società.
L’istanza deve qualificare il tipo di inquadramento fiscale su cui si chiede il pronunciamento dell’Agenzia. In sostanza, qualificata l’operazione e i suoi aspetti tributar si potrà ricorrere ad un interpello che punta a definire e qualificare, oppure a prevenire possibili interventi anti elusivi.
Dovranno essere richiamate le norme fiscali su cui si fonda la domanda e il regime da applicare all’attività di investimento da porre in essere.
L’interpello è preventivo e deve essere presentato prima del compimento di atti che importano l’applicazione dei regimi particolari tributari e comunque prima della presentazione della dichiarazione dei redditi di competenza.
Il parere espresso o quello desumibile dal silenzio assenso, obbliga l’Agenzia delle Entrate con la limitazione, ormai nota, alla circostanza che non cambino le modalità di esecuzione dell’operazione e i motivi in diritto che sono oggetto dell’interpello siano applicati e trovino riscontro nella realtà fattuale.

martedì 24 maggio 2016

IRAP le SS.UU. della Cassazione chiariscono l'autonoma organizzazione.

La Suprema Corte con la sentenza pronunciata il 10/5/2016 a sezioni unite è tornata, stavolta definitivamente, sull'applicazione dell'IRAP alle attività svolte da persone fisiche e società semplici e in particolare sul concetto di attività autonomamente organizzata.

Nel caso in esame la Cassazione ha riconosciuto al contribuente, nonostante la disponibilità di beni strumentali e la collaborazione di un dipendente, l'assenza di autonoma organizzazione, aprendo la strada al rimborso dell'IRAP pagata in vari anni.

La Corte ha chiarito che l'autonoma organizzazione si configura quando le utilità e le attività apportate dal lavoro altrui siano non trascurabili e generino un plus, un " effettivo qualcosa in più".

Seguendo il filone delle sentenze fin qui pronunciate, i Supremi Giudici hanno di fatto confermato l'orientamento che prevede che l'organizzazione deve avere una certa rilevana e deve fornire delle attività qualificate, che vanno oltre mere mansioni generiche ed esecutive, come ad esempio quelle di segreteria.

Ecco le parole usate dalla Corte di Cassazione " l'esercizio di attività .... è escluso dall'applicazione dell'imposta regionale sulle attività produttive solo qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata. Il requisito dell'autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui".

La Senntenza prevede che sia il contribuente a dover provare la non ricorrenza delle condizioni dell'autonoma organizzazione.

Riguardo all'uso dei beni strumentali la Suprema Corte precisa che non si configura l'autonoma organizzazione in capo al contribuente che impiega beni strumentali non eccedenti, secondo l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività, in assenza di organizzazione.

venerdì 13 maggio 2016

IL COSTO AMMORTIZZATO: NUOVI PRINCIPI CONTABILI DI GIULIA MARIA RIJILLO

Con la modifica delle norme del codice civile in materia di bilancio previste dal D. Lgs. 139/2015, viene introdotto nel contesto dei Principi contabili italiani il criterio del costo ammortizzato per l’iscrizione e valutazione dei crediti e dei debiti nel bilancio d’esercizio e consolidato. L’applicazione di questo principio pare non riguardare i crediti e i debiti commerciali. In queste operazioni, infatti, i tempi di incasso e di pagamento si presentano di norma brevi e la componente finanziaria (interessi espliciti o impliciti) non assume rilievo. Il nuovo criterio assume, quindi, maggiore rilevanza applicativa in relazione alle poste finanziari e in questo documento ci soffermeremo soprattutto sui debiti; in particolare, sui debiti su cui maturano interessi passivi ovvero sui debiti finanziari di medio/lungo termine, siano essi sotto forma di prestiti obbligazionari, finanziamenti soci, finanziamenti bancari e altri.
In questi casi è abbastanza normale che vi siano disaggi/aggi di emissione e costi iniziali. I costi iniziali sono tutti quei costi che non si sarebbero sostenuti se non si fosse emesso il finanziamento: ad esempio, spese di istruttoria, commissioni bancarie, spese legali e consulenze dirette per l’acquisizione dello strumento finanziario; la loro presenza fa sì che il tasso di interesse effettivo sul finanziamento sia maggiore del tasso di interesse nominale. Il criterio del costo ammortizzato, che ha sempre la sua base nel costo storico, tiene conto delle differenze tra tassi di interesse nominali e tassi effettivi, in particolare impone di ripartire (ammortizzare) le componenti di reddito finanziarie lungo la durata dell’operazione.
Praticamente, il valore iniziale di iscrizione in bilancio del debito è pari:
• per i finanziamenti, al valore nominale al netto dei costi iniziali;
• per i prestiti obbligazionari, al valore di emissione al netto dei disaggi di emissione e degli altri costi iniziali.
Negli esercizi successivi, il valore del debito deve essere rettificato dell’ammortamento (ripartizione) della differenza tra il valore iniziale di iscrizione e il valore a scadenza del debito (generalmente coincidente con il valore nominale). In pratica, il valore del debito iscritto nello Stato patrimoniale sarà pari al costo ammortizzato.
Gli interessi passivi vengono imputati a Conto economico, non in base al tasso nominale (con il quale si calcolano gli interessi da corrispondere alla banca), bensì in base al tasso di interesse effettivo, che risulta differente da quello nominale, proprio per effetto della presenza dei costi iniziali. Il tasso effettivo di interesse è il tasso interno di rendimento che rende uguale il valore attuale dei flussi di cassa in uscita futuri (per interessi e rimborso del capitale) al valore iniziale di iscrizione in bilancio del debito.
L’utilizzo del tasso di interesse effettivo consente, quindi, di riallineare nel tempo il valore di iscrizione iniziale con quello a scadenza, facendo emergere in bilancio, in ogni esercizio di durata del prestito, l’onerosità effettivamente sostenuta a fronte dell’erogazione del finanziamento, così da riflettere a Conto Economico il costo del finanziamento secondo un tasso costante e a Stato Patrimoniale il valore residuo dei flussi finanziari da utilizzare per il rimborso.
In questo modo il valore dei debiti riportato nello Stato Patrimoniale passivo non sarà più il valore nominale ma il costo ammortizzato, ovvero il valore inizialmente rilevato aumentato, anno dopo anno, dell’ammortamento della differenza iniziale e ridotto delle quote capitale rimborsate.
Si può affermare, in conclusione, che questo criterio migliora la rappresentazione di tali componenti reddituali, in quanto vengono rilevati gli interessi in base al tasso di rendimento effettivo e non nominale, tenendo in considerazione anche il fattore temporale.

martedì 3 maggio 2016

Il contrasto all'evasione, circ. 16/E del 2016.

La circolare 16E del 28 aprile segna uno spartiacque, una evoluzione culturale da parte dell'AE nell'attività di contrasto all'evasione, problema importante del nostro paese.
La pubblica amministrazione è consapevole che se da un lato deve essere intensificato il contrasto alle frodi ed alle forme di evasione più gravi, dall'altra deve maturare la consapevolezza che nei rapporti fisco-contribuente è necessario un cambio di passo.
Prosegue l'Agenzia precisando che è importante, infatti, che i cittadini percepiscano la correttezza e la proporzionalità dell’azione. Il modo con cui si interagisce con il contribuente è un elemento che incide notevolmente sulla percezione della fondatezza della pretesa; nel corso delle attività i funzionari, oltre al rispetto delle regole, si devono preoccupare anche di porsi nel modo giusto verso l’interlocutore, garantendo attenzione, rispetto e con un approccio chiaro, semplice e privo di preconcetti.
In effetti, spesso da parte dei contribuenti e degli operatori viene percepito un formalismo che, pur attingendo al giusto precetto del rispetto delle regole giuridiche, rischia di sconfinare nell'applicazione ingiusta o sperequata di norme e principi.
L'evasione si combatte nel merito e con un approccio ... che nel metodo ( ndr ) lontano dalla mera caccia agli errori dei contribuenti e predisposto alla trasparenza e al dialogo con tutti gli operatori che a vario titolo operano nel campo della fiscalità.
In precedenza anche il Ministro dell’Economia e delle finanze aveva inteso sottolineare la centralità del rapporto fisco-contribuente, ribadendo l’esigenza di maggiore trasparenza, semplificazione e razionalizzazione degli adempimenti, così da agevolare l’emersione dell’effettiva capacità contributiva.
Sono importanti le precisazioni citate nel presente post; evidenziano che sta per iniziare una nuova era nei rapporti tributari tra cittadino e stato e che si è compreso che l'evasione si contrasta con una efficace attività investigativa e di accertamento ma anche con comportamenti trasparenti e ispirati alla collaborazione e al dialogo.

lunedì 18 aprile 2016

Ammesso lo stralcio dell'IVA nel concordato preventivo.

In tema di falcidia dei debiti fiscali, soprattutto di quello riguardante l’IVA, la giurisprudenza nell’ambito del concordato preventivo alterna decisioni di inammissibilità a pronunce che riconoscono il diritto al taglio dell’imposta; è questo il caso di una recente decisione di un Tribunale campano, di S. Maria Capua Vetere, che ne ha ammesso, in assenza di transazione fiscale, lo stralcio.

Il Tribunale ha ricordato che in tema di IVA gli stati comunitari devono agire consentendo il rispetto degli obblighi normativi dell’UE; tuttavia, come previsto anche da una pronuncia della Corte di giustizia UE il diritto comunitario non impone agli stati di adottare un regime di preferenza del credito IVA in pregiudizio ad altri crediti.

E’ per questo motivo che il Tribunale ha ritenuto ammissibile la domanda di concordato presentata da un’impresa in difficoltà finanziaria e che intende liquidare il suo patrimonio stabilendo l’abbattimento del debito IVA. Nel caso in esame, come richiesto dalla norma, un tecnico aveva attestato che la procedura in esame non avrebbe assicurato un incasso minore di quello rinvenibile dall’eventuale fallimento.

lunedì 14 marzo 2016

I derivati nel bilancio 2015.

Il D.Lgs. 139/2015 ha modificato le norme sulla valutazione e rappresentazione in bilancio dei contratti derivati con effetto dal primo gennaio 2016.

Precisiamo che per l'anno 2015 il trattamento riguardo ai derivati va data informativa nella nota integrativa e ai fini del bilancio vanno rilevate le perdite presunte mediante stanziamento di apposito fondo rischi ed oneri come prescritto dall'OIC 31.

Fino ad oggi il codice civile non disponeva in modo preciso per quanto riguardava la e la valutazione degli strumenti derivati; le uniche prescrizioni riguardavano la nota integrativa e la Relazione sulla gestione.

E' necessario indicare in nota integrativa informazioni sul fair value e sulla natura e sul valore degli strumenti derivati.

Sono definiti strumenti finanziari derivati anche quelli collegati a merci che conferiscono all'una o all'altra parte contraente il diritto di procedere alla liquidazione del contratto per contanti o mediante altri strumenti finanziari, ad eccezione del caso in cui si verifichino contemporaneamente le seguenti condizioni:

il contratto sia stato concluso e sia mantenuto per soddisfare le esigenze previste dalla società che redige il bilancio di acquisto, di vendita o di utilizzo delle merci;
il contratto sia stato destinato a tale scopo fin dalla sua conclusione;
si prevede che il contratto sia eseguito mediante consegna della merce.

La relazione sulla gestione deve contenere informazioni sulle politiche di copertura in tema di rischio finanziario e l'esposizione della società al rischio di prezzo, come il rischio di liquidità e il rischio finanziario.
La società deve esporre e precisare gli strumenti finanziari la cui valutazione può modificare e incidere in modo significativo sulla rappresentazione patrimoniale e finanziaria.

venerdì 26 febbraio 2016

Mancato versamento ritenute e concordato preventivo, esclusione del reato.

La giurisprudenza della Suprema Corte ha recentemente previsto che il reato per omesso versamento di ritenute, ex art. 10 bis del decreto legislativo 70/2000, deve essere escluso quando il debitore viene ammesso al concordato preventivo.
In particolare, la Corte ha precisato che non si configura il fumus commissi delicti ogni qual volta la scadenza del pagamento delle ritenute è successiva all'ammissione dell'imprenditore al concordato e a condizione che il debito tributario ( relativi interessi e sanzioni ) sia stato inserito nel piano depositato in Tribunale.
Sarà considerato reato, al contrario, il mancato pagamento di tributi scaduti prima dell'ammissione, salvo che si riesca a provare la causa di forza maggiore che avrebbe impedito al contribunte di onorare il debito fiscale.

mercoledì 10 febbraio 2016

Il bilancio delle micro imprese.

Il decreto 139/2015 recepisce la direttiva UE 2013-34 introducendo nel codice civile l'art. 2435-ter che prevede per le micro-imprese alcune semplificazioni in tema di principi di redazione del bilancio.
La norma sopra ricordata individua le micro imprese come quelle che non operano in mercati regolamentati e che nel primo esercizio ( o per due esercizi consecutivi ) non hanno superato due dei sotto indicati limiti:
1. Totale attivo dello stato patrimoniale: euro 175.000;
2. Valore dei ricavi delle vendite e delle prestazioni: euro 350.000;
3. Numero dei dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 5 unità.
Per tali imrpese il bilancio resta quello abbreviato previsto dall’art. 2435-bis c.c., come modificato dalla norma in commento, con altre semplificazioni.
Il nuovo bilancio abbreviato subirà delle modifiche che si applicheranno anche alle micro imprese e che sono:
a) si può omettere l'indicazione degli ammortamenti e delle svalutazioni delle immobilizzazioni materiali e immateriali;
b) nel conto economico si possono raggruppare le voci d18a, d18b, d18c, d18d e le voci d19a, d19b, d19c d19d;
c) non figureranno più iscritte in bilancio le voci dei proventi e oneri straordinari.
Inoltre, le micro-imprese non saranno obbligate alla redazione del rendiconto e della nota integrativa. Relativamente alla nota integrativa si potrà non redigerla solo se in calce allo stato patrimoniale verranno riportate le informazioni di cui al primo comma dell’art. 2427 del codice civile punti 9 e 16.
Anche la relazione sulla gestione non sarà obbligatoria qualora sempre in calce allo stato patrimoniale venga evidenziato quanto previsto dall'art 2428 codice civile ai punti 3 e 4.
La semplificazione più importante è senz'altro quella di non dover redigere la nota integrativa, prevedendo nella parte finale dello stato patrimoniale le notizie sugli impegni e garanzie e passività potenziali, quelle riguardanti i trattamenti di quiescenza e simili, le informazioni sugli impegni nei confronti di imprese controllate e collegate e controllanti, infine l'esplicitazione dei prestiti e dei compensi dati agli amministratorie ai sindaci.
Il decreto 139/2015 modifica anche lo schema del bilancio ordinario e della nota integrativa prevedendo, tra le altre cose, l'eliminazione nello stato patrimoniale dei conti d’ordine.
Riguardo ai criteri di redazione del bilancio l’art. 2435-ter c.c. prevede la dispensa per le micro-imprese dall'applicazione del disposto del V c. dell’art. 2423 codice civile e del I c. punto 11 bis dell’art. 2426 codice civile, in forza dei quali tali imprese potranno derogare alle disposizioni sul bilancio qualora ne risultasse compromessa la rappresentazione veritiera e corretta e non dovranno usare il principio del fair value per valutare gli strumenti finanziari derivati.

martedì 2 febbraio 2016

Maxi-ammortamento, chiarimenti dell'Agenzia delle Entrate.

L’Agenzia della Entrare in occasione del convegno Telefisco 2106 ha chiarito alcuni aspetti della normativa riferita ai maxi ammortamenti, previsti dalla legge di Stabilità 2016.
In primo luogo L’AE ha precisato che i soggetti beneficiari dell provvedimento sono gli esercenti attività di impresa e i professionisti, poi è entrata nel dettaglio del regime dei minimi, che pur applicando il principio di cassa non sono escludi dall'agevolazione; agevolazione che invece l'AE ha escluso per i contribuenti forfetari, che determinano il reddito attraverso im coefficiente applicato al volume dei ricavi.
L'AE ha precisato per calcolare gli investimenti nel periodo di applicazione della norma, che è decorso dal 15 ottobre 2015 e si chiuderà il 31 dicembre 2016, si applicherà la regola della competenza previsto nel TUIR.
La maggiorazione per gli acquisti di beni, che si applicherà anche a quelli acquistati mediante contratti di leasing, scatterà a partire dell'esercizio di entrata in funzione del bene. Si potrà beneficiare dellagevolazione se i beni strumentali e materiali avranno la caratteristica della novità.
L‘AE ha precisato riguardo ai beni di valore inferiore al limite di 516,46 euro che poiché la maggiorazione riguarda la determinazione delle quote di ammortamento, anche nel caso in cui il costo dovesse superare i 516,46 euro, per via della maggiorazione, si potrà continuare ad effettuare la deduzione nell'anno.
Il maxi ammortamento non ha effetto ai fini IRAP.


giovedì 21 gennaio 2016

Rivalutazione dei beni di impresa 2015.

La legge di stabilità del 2016 ha riaperto i termini per eseguire le rivalutazioni dei beni d’impresa e
delle partecipazioni. 

I soggetti che possono eseguire la rivalutazione sono i percettori di redditi di imrpesa e più in dettaglio le società di capitali e gli enti commerciali che nella redazione del bilancio non adottano i principi contabili internazionali.
La rivalutazione riguarderò i beni iscritti nel bilancio dell’esercizio chiuso il 31 dicembre 2014 e potrà essere
effettuata nel bilancio dell 2015. 

La norma e la  prsassi di riferimento sono quelle che derivano dalla disciplina prevista dalla legge n. 342 del 2000 e successive integrazioni.
I beni che possono essere oggetto di rivalutazione son:
- le immobilizzazioni materiali, ammortizzabili e non;
- le immobilizzazioni materiali;
- le partecipazioni, costituenti immobilizzazioni finanziarie, detenute in società controllate o collegate ai sensi dell’art. 2359 c.c.
La rivalutazione deve riguardare tutti i beni appartenenti alla medesima categoria omogenea.
Il maggior valore attribuito ai beni viene riconosciuto ai fini delle imposte dirette, dell'IRAP e delle addizionali a decorrere dal terzo esercizio successivo a quello nel quale la rivalutazione è stata effettuata, quindi a partire dall'anno 2018. 
Il valore della rivalutazione comporta il pagamento di una imposta sostitutiva che è:
- del 16% per i beni ammortizzabili
- del 12% per i beni non ammortizzabili.
L' imposta sostitutiva deve essere versata in tre rate annuali di pari importo, senza la corresponsione di interessi. La prima rata è fissata per il 16 giugno 2016, mentre le altre due entro il 16 giugno 2017 e il 16 giugno 2018. 
ll saldo attivo della rivalutazione può essere affrancato tramite il pagamento di un’imposta sostitutiva pari al 10%.
Anche il saldo attivo del 10% può essere corrisposto in tre rate con le medesime modalità e tempistiche sopra riportate.