Di tanto in tanto nelle nostre aule di giustizia fa capolino la spinosa questione relativa alla prescrizione dei crediti incorporati in provvedimenti degli enti impositori quali, in primis, le cartelle esattoriali. In particolare, i giudici si sono spesso trovati a dover stabilire quale fosse il tempo massimo entro cui lo Stato detiene il diritto di riscuotere le somme riportate in un atto impositivo non impugnato entro i termini previsti dalla legge. La questione, che a primo acchito potrebbe sembrare banale, da molto tempo è al centro di un vivo dibattito che vede contrapposti due diversi orientamenti.
Ogni credito contributivo o erariale ha di solito prescrizione quinquennale, che può essere interrotta con l’invio di comunicazioni, atti notificati al debitore volti a sollecitare il pagamento.
La Cassazione a Sezione Unite con la sentenza n. 23397/2016 ha statuto un importante principio di diritto proprio sulla prescrizione che potrebbe avere rilevanza anche ai fini della valutazione della rottamazione dei ruoli. In breve il principio di diritto enunciato è il seguente: la mancata impugnazione di un qualunque atto impositivo non comporta l’allungamento del termine prescrizionale, al contrario del diritto di credito contenuto in una sentenza passata in giudicato, che invece si prescrive in dieci anni. Si applica quindi il principio secondo il quale la scadenza del termine stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo, o comunque di riscossione coattiva, produce solo l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito senza determinare l’effetto della cosiddetta “riconversione” del termine di prescrizione breve, eventualmente previsto, in quello ordinario.
Il cuore del contrasto attiene alla possibilità di applicazione analogica del disposto di cui all'art. 2953 c.c. alle cartelle esattoriali notificate dall'agente della riscossione, secondo cui: «I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni».
L'orientamento favorevole all'assoggettamento della cartella esattoriale al termine di prescrizione decennale fa leva sull'intangibilità della pretesa creditoria, a seguito di mancata opposizione, sostenendo che in tali casi il termine diventi di dieci anni.
Il concetto sostanzialmente sarebbe il seguente: il termine prescrizionale inferiore ai dieci anni previsto dalle disposizioni speciali intanto manterrebbe il proprio valore in quanto il provvedimento che lo contiene (sia esso l'atto impositivo o la cartella esattoriale) non sia divenuto inoppugnabile. Successivamente, al pari di un provvedimento giurisdizionale, sarebbe assoggettato ad estinzione per prescrizione trascorsi dieci anni.
In tale indirizzo giurisprudenziale, per vero, non si registra una vera e propria affermazione sulla “metamorfosi” dell'atto amministrativo in provvedimento giurisdizionale, con ciò consentendo un'applicazione diretta (e non analogica) dell'art. 2953 c.c..
L'opposta tesi, maggioritaria, prende le mosse dai principi generali dell'ordinamento ed analizza compiutamente il ruolo della pubblica amministrazione nelle procedure esecutive e la natura giuridica dell'atto impositivo o della riscossione.
Secondo questa giurisprudenza le cartelle o i ruoli non opposti non perdono, in forza della mera acquiescenza del contribuente il proprio carattere di atto amministrativo e, men che meno, si tramutano in titolo giudiziale. La differenza è, infatti, evidente: il provvedimento amministrativo è emanato da una pubblica amministrazione e non è soggetto ad un controllo giurisdizionale, se non in una eventuale sede d'impugnazione. Orbene, nell'ambito di un rapporto trilaterale (ente – contribuente – giudice), nel quale il ruolo del giudice sia quello di controllore delle pretese dell'Ente pubblico, non è possibile accordare al provvedimento amministrativo che instaura un rapporto bilaterale la medesima efficacia del giudicato.
Le Sezioni unite, risolvendo il contrasto giurisprudenziale, hanno innanzitutto affermato che la prescrizione decennale prevista dall'art. 2953 del Codice civile decorre dal passaggio in giudicato della sentenza e l'eventuale conversione della prescrizione breve in quella decennale trova il proprio fondamento proprio nella sentenza stessa. Sia la cartella di pagamento sia gli altri titoli che legittimano la riscossione coattiva, compreso anche l'accertamento esecutivo, non sono idonei ad acquisire efficacia di giudicato. In conclusione, quindi, la Cassazione ha affermato il principio secondo cui la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto produce solo l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, ma non determina anche la conversione del termine di prescrizione breve in ordinario di dieci anni. In altri termini, la circostanza che una intimazione di pagamento erariale non sia più suscettibile di contestazione perché non impugnata in tempo utile, non può in alcun modo giustificare il prolungamento del periodo di prescrizione previsto per la specifica tipologia di imposizione.
Tale principio si applica per tutti gli atti di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero dei crediti erariali, nonché per le sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie.
Si legge nella sentenza n. 23397/2016 che una diversa conclusione, a volte paventata da alcuni tribunali, rappresenta una erronea e frettolosa interpretazione dei principi espressi dalla Suprema Corte sul tema. In realtà, i giudici di legittimità, pur confermando in precedenti occasioni il principio di immodificabilità dell'atto impositivo non impugnato, non hanno mai inteso equiparare i provvedimenti emessi dalla P.A. alle sentenze passate in giudicato onde attribuire anche ai primi gli effetti di cui all'art. 2953 c.c.
Non va infine dimenticato che la legittimità del sistema di riscossione degli introiti statali passa anche dal riconoscimento dei diritti dei soggetti chiamati ad eseguire i pagamenti. In tale ottica, è difficile legittimare la lettura di una norma che in concreto produce l'effetto di imbrigliare i contribuenti in lunghissimi periodi di incertezza a tutto vantaggio di Enti istituzionali incapaci di operare in tempi ragionevoli.
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