lunedì 28 novembre 2016

La prescrizione dei crediti tributari

Di tanto in tanto nelle nostre aule di giustizia fa capolino la spinosa questione relativa alla prescrizione dei crediti incorporati in provvedimenti degli enti impositori quali, in primis, le cartelle esattoriali. In particolare, i giudici si sono spesso trovati a dover stabilire quale fosse il tempo massimo entro cui lo Stato detiene il diritto di riscuotere le somme riportate in un atto impositivo non impugnato entro i termini previsti dalla legge. La questione, che a primo acchito potrebbe sembrare banale, da molto tempo è al centro di un vivo dibattito che vede contrapposti due diversi orientamenti.
Ogni credito contributivo o erariale ha di solito prescrizione quinquennale, che può essere interrotta con l’invio di comunicazioni, atti notificati al debitore volti a sollecitare il pagamento.
La Cassazione a Sezione Unite con la sentenza n. 23397/2016 ha statuto un importante principio di diritto proprio sulla prescrizione che potrebbe avere rilevanza anche ai fini della valutazione della rottamazione dei ruoli. In breve il principio di diritto enunciato è il seguente: la mancata impugnazione di un qualunque atto impositivo non comporta l’allungamento del termine prescrizionale, al contrario del diritto di credito contenuto in una sentenza passata in giudicato, che invece si prescrive in dieci anni. Si applica quindi il principio secondo il quale la scadenza del termine stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo, o comunque di riscossione coattiva, produce solo l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito senza determinare l’effetto della cosiddetta “riconversione” del termine di prescrizione breve, eventualmente previsto, in quello ordinario.
Il cuore del contrasto attiene alla possibilità di applicazione analogica del disposto di cui all'art. 2953 c.c. alle cartelle esattoriali notificate dall'agente della riscossione, secondo cui: «I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni».
L'orientamento favorevole all'assoggettamento della cartella esattoriale al termine di prescrizione decennale fa leva sull'intangibilità della pretesa creditoria, a seguito di mancata opposizione, sostenendo che in tali casi il termine diventi di dieci anni.
Il concetto sostanzialmente sarebbe il seguente: il termine prescrizionale inferiore ai dieci anni previsto dalle disposizioni speciali intanto manterrebbe il proprio valore in quanto il provvedimento che lo contiene (sia esso l'atto impositivo o la cartella esattoriale) non sia divenuto inoppugnabile. Successivamente, al pari di un provvedimento giurisdizionale, sarebbe assoggettato ad estinzione per prescrizione trascorsi dieci anni.
In tale indirizzo giurisprudenziale, per vero, non si registra una vera e propria affermazione sulla “metamorfosi” dell'atto amministrativo in provvedimento giurisdizionale, con ciò consentendo un'applicazione diretta (e non analogica) dell'art. 2953 c.c..
L'opposta tesi, maggioritaria, prende le mosse dai principi generali dell'ordinamento ed analizza compiutamente il ruolo della pubblica amministrazione nelle procedure esecutive e la natura giuridica dell'atto impositivo o della riscossione.
Secondo questa giurisprudenza le cartelle o i ruoli non opposti non perdono, in forza della mera acquiescenza del contribuente il proprio carattere di atto amministrativo e, men che meno, si tramutano in titolo giudiziale. La differenza è, infatti, evidente: il provvedimento amministrativo è emanato da una pubblica amministrazione e non è soggetto ad un controllo giurisdizionale, se non in una eventuale sede d'impugnazione. Orbene, nell'ambito di un rapporto trilaterale (ente – contribuente – giudice), nel quale il ruolo del giudice sia quello di controllore delle pretese dell'Ente pubblico, non è possibile accordare al provvedimento amministrativo che instaura un rapporto bilaterale la medesima efficacia del giudicato.
Le Sezioni unite, risolvendo il contrasto giurisprudenziale, hanno innanzitutto affermato che la prescrizione decennale prevista dall'art. 2953 del Codice civile decorre dal passaggio in giudicato della sentenza e l'eventuale conversione della prescrizione breve in quella decennale trova il proprio fondamento proprio nella sentenza stessa. Sia la cartella di pagamento sia gli altri titoli che legittimano la riscossione coattiva, compreso anche l'accertamento esecutivo, non sono idonei ad acquisire efficacia di giudicato. In conclusione, quindi, la Cassazione ha affermato il principio secondo cui la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto produce solo l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, ma non determina anche la conversione del termine di prescrizione breve in ordinario di dieci anni. In altri termini, la circostanza che una intimazione di pagamento erariale non sia più suscettibile di contestazione perché non impugnata in tempo utile, non può in alcun modo giustificare il prolungamento del periodo di prescrizione previsto per la specifica tipologia di imposizione.
Tale principio si applica per tutti gli atti di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero dei crediti erariali, nonché per le sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie.
Si legge nella sentenza n. 23397/2016 che una diversa conclusione, a volte paventata da alcuni tribunali, rappresenta una erronea e frettolosa interpretazione dei principi espressi dalla Suprema Corte sul tema. In realtà, i giudici di legittimità, pur confermando in precedenti occasioni il principio di immodificabilità dell'atto impositivo non impugnato, non hanno mai inteso equiparare i provvedimenti emessi dalla P.A. alle sentenze passate in giudicato onde attribuire anche ai primi gli effetti di cui all'art. 2953 c.c.
Non va infine dimenticato che la legittimità del sistema di riscossione degli introiti statali passa anche dal riconoscimento dei diritti dei soggetti chiamati ad eseguire i pagamenti. In tale ottica, è difficile legittimare la lettura di una norma che in concreto produce l'effetto di imbrigliare i contribuenti in lunghissimi periodi di incertezza a tutto vantaggio di Enti istituzionali incapaci di operare in tempi ragionevoli.


giovedì 3 novembre 2016

Le dichiarazioni integrative: il D.L. 193/2016 di Giulia Maria Rijillo

Nella compilazione della dichiarazione dei redditi è possibile che il contribuente possa compiere errori di omissioni di vario genere. In tali casi, l'art. 2, commi 8 e 8 bis, del DPR. n. 322 del 22/07/1998, riconosce la possibilità che detti errori od omissioni vengano corretti mediante successive dichiarazioni c.d. Integrative. Bisogna però distinguere a seconda che le rettifiche avvengano a sfavore (in malam partem) oppure a favore del contribuente (in bonam partem).
La dichiarazione integrativa a "sfavore" è quella che può essere presentata per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l'indicazione di un minor reddito e, comunque, di un minor debito d'imposta o di un maggior credito.
Tale rettifica pro fisco può essere operata, ai sensi dell'art. 2, comma 8, del DPR. n. 322/1998, entro il termine per l'accertamento di cui all’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973 (ordinariamente, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione). Di contro, la dichiarazione integrativa "a favore" è quella che può essere presentata per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l'indicazione di un maggior reddito e, comunque, di un maggior debito d'imposta o di un minor credito. Diversamente dalla rettifica pro fisco, quella pro contribuente, prima del D.L. n. 193/2016, sarebbe dovuta essere operata, entro il termine per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo, con la precisazione che il credito di imposta che dovesse dalla stessa emergere può essere utilizzato in compensazione ai sensi del D. Lgs. n. 241/1997. Con il Dl del 22 ottobre 2016 n. 193, collegato alla manovra fiscale 2017, è stato, finalmente, superato il il "dualismo" fino ad oggi esistente tra la dichiarazione integrativa a favore da quella in sfavore del contribuente dal punto di vista dei termini di presentazione. Il nuovo comma 8 fissa il principio che la dichiarazione (redditi, Irap e sostituti) risulta trattabile sia a sfavore che a favore del contribuente entro i termini di decadenza dell'azione di accertamento. Resta salva l'applicazione delle sanzioni e la possibilità di ricorrere all'istituto del ravvedimento operoso secondo quanto previsto dall'art. 13 del Dlgs 472/1997. Il nuovo comma 8-bis prevede specifiche disposizioni sulla compensazione in quanto concede al contribuente la possibilità di utilizzare in compensazione il credito emergente dalla dichiarazione integrativa presentata entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo; qualora l’integrativa sia presentata oltre il termine di presentazione della dichiarazione riferita al periodo d’imposta successivo, la compensazione è consentita esclusivamente per eseguire il versamento di debiti maturati a partire dal periodo d’imposta successivo a quello di presentazione della dichiarazione integrativa. Si rileva che il concetto di “debito maturato” non è lo stesso di “debito relativo al periodo d'imposta”. Ad ogni modo se ne ricava che il credito che emerge dalla dichiarazione integrativa a favore è liberamente compensabile se la stessa viene presentata entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo successivo, mentre se l'integrativa viene presentata dopo, la compensazione incontra delle limitazioni.
Anche ai fini IVA viene introdotta l’opportunità di presentare una dichiarazione integrativa, sia a favore che a sfavore, entro i termini di decadenza dell’azione di accertamento (nuovo comma 6-bis, art. 8 del DPR 322/1998). Viene previsto, però, che solo il credito che emerge dalla dichiarazione integrativa, presentata entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, è utilizzabile in compensazione o può essere portato in detrazione in sede di liquidazione periodica o di dichiarazione annuale ed eventualmente, si può richiedere a rimborso previa verifica dei requisiti di cui all’art. 30 del DPR 633/1972. Invece, in caso di presentazione della dichiarazione integrativa a favore oltre il termine di presentazione della dichiarazione riferita al periodo successivo, il credito IVA emergente deve essere utilizzato fuori dichiarazione, in quanto tale ipotesi non è contemplata nel nuovo comma 6-ter, cosa alquanto assurda una volta affermato per legge il principio di ritrattabilità della dichiarazione a favore del contribuente nei termini di decadenza dell'accertamento.
Infine, è stata introdotta un’importante novità riguardante gli effetti della presentazione della dichiarazione integrativa: dalla data di presentazione di tale dichiarazione, vengono postergati i termini di decadenza dell’azione di accertamento, per i soli elementi oggetto dell’integrazione.