Sono passati circa 50 anni dalla visione, che possiamo dire errata e che infatti successivamente fu ritrattata, con cui il nobel per l’economia Milton Friedman, teorizzò in un articolo famoso sul NYT che l’unica responsabilità sociale delle imprese è fare profitti (The Social Responsibility of Business is to Increase its Profits- New York Times Magazine 1970); era una sintesi ben rappresentata e difesa della shareholders theory.
Non è compito di questo lavoro di specificare e analizzare la struttura teorica dei due modelli di governance; che sono ampiamente dibattuti e commentati da decenni da vari economisti. Il punto è capire quale dei due modelli può funzionalmente assicurare maggiore stabilità alle imprese.
Già da un mero punto di vista definitorio lo shareholder model (o finance model) ci fa comprendere che siamo di fronte ad un sistema di CG, orientato alla tutela degli interessi degli azionisti e conseguentemente alla massimizzazione del profitto da distribuire.
Del finance model si può dire che un siffatto approccio gestionale potrebbe incorporare un possibile difetto o meglio una assenza di specificazione. Di quale profitto parliamo? Il residuo per gli azionisti? Il valore aggiunto da distribuire a più soggetti? Si parla di profitto di breve periodo o di medio lungo periodo? La distinzione non è di poco conto.
Se prendiamo, ad esempio, il risultato economico annuale, ci misuriamo con la redditività del capitale proprio, che è un concetto di fine periodo e che rimanda alla rimuneratività del capitale di rischio. Siamo in un ambito di economia aziendale in cui entra in gioco il principio dell’efficienza, che consente di raggiungere il miglior risultato con l’uso minore di risorse. Il controllo dei costi in un contesto del genere spinge il board e il management a dotarsi di modelli organizzativi e gestionali che ragionano in termini di breve periodo.
Invece, in particolare negli attuali contesti produttivi in cui l’impresa si confronta con una forte variabilità della domanda, la sfida è quella di concentrarsi non sulla riduzione dei costi - quindi sul prezzo - ma sul miglior mix di processo e di prodotto, per aumentare il valore del capitale dell’azienda, passando dal lato dell’equity al lato del capitale investito - cioè dall’ottica del patrimonio netto ci spostiamo a quello degli investimenti – e contemporaneamente all’idea di efficienza aggiungiamo quella di efficacia.
Infatti, il risultato economico di periodo non basta ad assicurare la redditività di lungo termine, perché l’utile - e quindi l’efficienza della gestione - seppur necessaria è continuamente messa in discussione dalle mutate condizioni operative in cui l’impresa opera e dalla variabilità di tutti i fattori della produzione, non solo del capitale finanziario. Senza investimenti in ricerca e sviluppo e senza investimenti in capitale umano la stabilità di ogni modello di business sarebbe compromesso nel medio periodo.
Una società è realmente competitiva se il suo governo è in grado di gestire e accrescere il valore delle sue risorse e competenze distintive preservandole nel tempo. Ogni azione che va nel senso di assicurare maggiore valore economico e che tiene conto solo dell’utile di breve periodo è un comportamento gestionale che mina alla base la sussistenza di ogni ente economico.
Un'altra annotazione che differenzia i due modelli di CG è dato dall’asimmetria informativa che esiste tra gli agenti e gli stakeholder; è chiaro che colui che agisce dispone delle informazioni complete ed è il cda e il management che scelgono quale indirizzo seguire e che scelte fare. Esiste, quindi, una posizione passiva in termini temporali che contraddistingue il ruolo di alcuni stakeholder, che apprendono dei risultati economici conseguiti e di certe politiche aziendali solo ex post.
Di fatto è quello che è accaduto in molte imprese durante gli ultimi anni: in condizioni critiche, spesso è stata penalizzata la creazione di valore per la generalità degli stakeholder, optando per conferire vantaggi a beneficio dei vertici (azionisti e manager – questi ultimi con i compensi e le stock options, gli azionisti con dividenti e acquisti di azioni proprie), affidandosi a tecniche di gestione e comunicazione opache ed evitando di coinvolgere i soggetti esterni e più deboli. E così si genera un trade-off, la governance che viene piegata a logiche di formazione delle decisioni poco trasparenti che generano conflitto anziché cooperazione.
Ma il successo delle imprese è dovuto solo ai soci che conferiscono capitale di rischio, o dipende anche dall’impegno e dalle capacità del capitale umano, dai buoni servizi e prodotti, dalla collaborazione accordata dai fornitori, dalle buone relazioni instaurate con i clienti?
E’ chiaro che i buoni risultati conseguiti dalle imprese non dipende solamente dalla dotazione iniziale di capitale apportato dagli azionisti o dalla buona gestione del management, ma anche ed essenzialmente da una serie di condizioni e contesti che richiedono cooperazione.
Le crisi di impresa e le frodi (Enron, Worldcom, Parmalat etc) che hanno caratterizzato gli ultimi decenni hanno portato in evidenza un deficit di vigilanza e di prevenzione dei rischi, palesando un insanabile vulnus in alcuni modelli di CG.
La grande convergenza: anche gli autori più ortodossi sono convinti che non può essere il profitto e la sua distribuzione l’unica missione delle imprese, ammettendo in questo modo l’esistenza di vincoli di natura non economica al loro agire.
La responsabilità sociale favorisce politiche aziendali conformi a principi etici che possono:
. ridurre il rischio reputazionale derivante da violazioni di norme e suggerendo il rispetto di vincoli sociali e ambientali;
. creare un clima di fiducia che aumenta la motivazione e il senso di appartenenza dei collaboratori, dei fornitori e clienti;
. attenuare la conflittualità con le organizzazioni esterne di controllo e vigilanza e con la comunità in genere (sindacati, enti esterni di sorveglianza, territorio, famiglie, enti pubblici).
La reputazione è certamente uno dei driver di maggiore impatto per le imprese del XXI secolo. Le informazioni circolano velocemente e la cattiva reputazione che può derivare da fatti gestionali discutibili, opportunistici o colposi, e che implicano ricadute sociali e ambientali possono avere effetti sulle vendite e sulla solidità patrimoniale delle aziende.
Tuttavia, l’adozione di modelli di CG ispirati alla stakeholder theory non è sufficiente a scongiurare prassi aziendali riprovevoli e comportamenti delittuosi; evidente è in tal senso il caso del diesel gate che ha colpito Volkswagen. Il marchio tedesco è stato insignito di molti riconoscimenti in tema responsabilità sociale d’impresa vincendo prestigiosissimi premi (il Gold Medal Award for Sustainable Development assegnato dalla non profit World Environment Center). Lo scandalo che ha coinvolto Volkswagen e altre imprese automobilistiche non aiuta a comprendere in che modo la CSR funzioni veramente e sia realmente sentita dalle imprese o la sua implementazione risponda a mere tecniche di marketing (cd greenwashing).
Studio ASSE - Commercialisti e Avvocati in Roma, Bologna e Milano. Dott. Arturo Gulinelli - Dott. Salvatore Magistri - Avv. Piero Cesarei - Avv. Matteo Pellegrini - Avv. Giampiero Agnese - Avv. Nicoletta Grassi - Sede di Roma, Via Scipioni 132 - 00192 - tel. 063700388 r.a. - sede di Bologna via L.C. FARINI 40124 Tel: 051/332017 - sede di Milano Piazza Velasca 8 - 20122 - Tel: 02/76004104 -
mercoledì 27 febbraio 2019
mercoledì 13 febbraio 2019
Convegno di studio: la riforma in tema di procedure concorsuali
Studio Asse in collaborazione con lo IEL presentano una tavola rotonda per poter discutere insieme delle novità introdotte dal nuovo codice della crisi d'impresa, secondo appuntamento di una serie di incontri riguardo le novità delle procedure concorsuali.
venerdì 8 febbraio 2019
IMPOSIZIONE INDIRETTA: TRUST E LA TASSAZIONE DELL'ATTO DI DOTAZIONE
IL TRUST è un istituto tipico della common law ovvero un rapporto giuridico basato sull’affidamento, mediante il quale un soggetto, detto disponente o settlor, trasferisce per atto inter vivos o mortis causa, beni e diritti ad un altro soggetto, detto trustee, affinché, diventandone proprietario, li amministri e li utilizzi nell’interesse di altri soggetti, detti beneficiari, o per il perseguimento di determinate finalità.
L’atto di dotazione patrimoniale al Trust è l’atto con il quale il disponente o un terzo apportatore trasferiscono i beni assoggettandoli in trust; e ai fini dell’imposizione indiretta esso rientra nella categoria della costituzione dei vincoli di destinazione.
A tal proposito si evidenzia che sull’argomento nel tempo si sono succeduti due orientamenti opposti da parte della Cassazione e dell’Amministrazione Finanziaria basati sulla diversa concezione temporale del momento impositivo quale manifestazione della capacità contributiva ex art. 53 Cost; e in quanto tale soggetto a tassazione
Più specificatamente se il momento di istituzione del vincolo di destinazione è inteso come espressione della capacità di cui sopra – che però non comporta arricchimento per nessuno- allora l’imposizione andrà applicata ab origine. Al contrario se si considera come espressione della capacità contributiva solo il momento dell’effettivo trasferimento dei beni dal trustee ai beneficiari, con effettivo arricchimento di questi ultimi, allora l’imposizione dovrà essere applicata al momento finale. Ne consegue, pertanto, che il regime fiscale da utilizzare per la fattispecie in esame è molto discusso.
Ciò premesso, illustriamo -brevemente- gli orientamenti dell’A.F e della Suprema Corte, tramite i quali si delinea il seguente quadro di sistema:
1 AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA- ORIENTAMENTO.
L’atto di dotazione al TRUST- la costituzione dei vincoli di destinazione sui beni e diritti- rappresenta una fattispecie rilevante- indipendentemente dal tipo di Trust- ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, così come reintrodotta nel 2006 dalla Legge n. 262; che detta per essa una specifica disciplina contenuta all’art. 2 dai commi 47 a 49.
Infatti, l’art. 2 comma 47 L. 262/2006 prescrive che: “è istituita l'imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione …..(*)”.
E ’opportuno, inoltre, considerare come documentazione di prassi a supporto di tale tesi le circolari numero 48/E del 2007 e 3/E del 2008.
Pertanto, la costituzione dei vincoli di destinazione su beni e diritti va assoggettata all’imposta sulle donazioni in misura proporzionale; con la previsione sia di aliquote ridotte sia di franchigie in relazione al grado di parentela del beneficiario con il disponente al momento della costituzione del vincolo.
Ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle donazioni, stando ad una interpretazione letterale e formalistica della norma non condivisa dalla giurisprudenza e dalla dottrina come di seguito si avrà modo di specificare, la tassazione scatterebbe al momento della costituzione del vincolo di destinazione, ovvero quando il disponente attua la segregazione dei beni.
La forma dubitativa è essenziale perché il dettato normativo del citato articolo 2 comma 47 della legge 262/2006 sembra troppo scarno per generare un presupposto giuridico che va a colpire la creazione del vincolo di destinazione senza degnarsi di qualsivoglia evento traslativo. In effetti l’intervento legislativo del 2006 non ha fatto altro che far rivivere l’abrogata imposta sulle successioni di cui al D.Lgs 346/1990, a cui appunto è stato aggiunto l’assoggettamento ad imposta dei vincoli di destinazione; la norma del 1990 prevedeva quale evento nativo dell’imposizione, il trasferimento di beni e diritti e in questo modo andava a disciplinare, in qualche modo, le manifestazioni di capacità contributiva seguite all’arricchimento del beneficiario.
Vediamo cosa ne pensa la Cassazione.
2 CASSAZIONE-ITER DEI DIVERSI ORIENTAMENTI
Una serie di pronunce ondivaghe e discordanti. Dapprima la Corte aveva stabilito con le ordinanze n. 3735, 3737, 3886 e 5332 del 2015 che trattandosi di vincolo di destinazione – sin dalla sua costituzione- andasse soggetto all’ imposta prevista per le successioni e donazioni in misura proporzionale dell’8%.
Tale orientamento è stato superato dalla sentenza n.21 614/2016 -che rappresenta il turning point-secondo cui l’imposta di donazione, nonché le imposte ipotecarie e catastali sono dovute nel passaggio finale dei beni dal trustee ai beneficiari, e non nel momento iniziale del passaggio dal disponente al trustee Appare, quindi, dirimente la sentenza n. 975/2018 della Suprema Corte che consolida l’orientamento espresso nella sentenza n. 21614/2016 ove si afferma che la dotazione di un trust non è da intendere quale manifestazione di capacità contributiva e come tale debba essere tassato in misura fissa.
Infine, con le ordinanze numero 734/2019 e 31445/2018 la Suprema Corte ha cercato di chiarire il regime fiscale applicabile nei seguenti casi concreti: i) Il Trust è “traslativo” ovvero comporta un trasferimento patrimoniale dal disponente al trustee e il beneficiario finale del trust è già stabilmente individuato allora verrà applicata l’imposta di donazione in misura proporzionale. ii) Il Trust è “traslativo”, ma l’intestazione al trustee del patrimonio destinato al trust configuri una situazione transitoria, allora verrà applicata l’imposizione in misura fissa, in quanto l’imposizione proporzionale si applicherà solo quando vi sarà la definitiva attribuzione dei beni del trust ai soggetti che ne beneficeranno; iii) Il Trust è “autodichiarato” si rimanda ai punti i) e ii) di cui sopra.
E bene ricordare che anche l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di merito ha sostenuto- con varie sentenze- la tesi della tassazione proporzionale solo in occasione del trasferimento finale.
In conclusione, la semplice istituzione di un vincolo di destinazione non esprimerebbe alcuna capacità contributiva, poiché questa ultima intesa come “arricchimento” del beneficiario si avrà solamente nel momento dell’ effettivo trasferimento dei beni dal trustee al beneficiario.
L’atto di dotazione patrimoniale al Trust è l’atto con il quale il disponente o un terzo apportatore trasferiscono i beni assoggettandoli in trust; e ai fini dell’imposizione indiretta esso rientra nella categoria della costituzione dei vincoli di destinazione.
A tal proposito si evidenzia che sull’argomento nel tempo si sono succeduti due orientamenti opposti da parte della Cassazione e dell’Amministrazione Finanziaria basati sulla diversa concezione temporale del momento impositivo quale manifestazione della capacità contributiva ex art. 53 Cost; e in quanto tale soggetto a tassazione
Più specificatamente se il momento di istituzione del vincolo di destinazione è inteso come espressione della capacità di cui sopra – che però non comporta arricchimento per nessuno- allora l’imposizione andrà applicata ab origine. Al contrario se si considera come espressione della capacità contributiva solo il momento dell’effettivo trasferimento dei beni dal trustee ai beneficiari, con effettivo arricchimento di questi ultimi, allora l’imposizione dovrà essere applicata al momento finale. Ne consegue, pertanto, che il regime fiscale da utilizzare per la fattispecie in esame è molto discusso.
Ciò premesso, illustriamo -brevemente- gli orientamenti dell’A.F e della Suprema Corte, tramite i quali si delinea il seguente quadro di sistema:
1 AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA- ORIENTAMENTO.
L’atto di dotazione al TRUST- la costituzione dei vincoli di destinazione sui beni e diritti- rappresenta una fattispecie rilevante- indipendentemente dal tipo di Trust- ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, così come reintrodotta nel 2006 dalla Legge n. 262; che detta per essa una specifica disciplina contenuta all’art. 2 dai commi 47 a 49.
Infatti, l’art. 2 comma 47 L. 262/2006 prescrive che: “è istituita l'imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione …..(*)”.
E ’opportuno, inoltre, considerare come documentazione di prassi a supporto di tale tesi le circolari numero 48/E del 2007 e 3/E del 2008.
Pertanto, la costituzione dei vincoli di destinazione su beni e diritti va assoggettata all’imposta sulle donazioni in misura proporzionale; con la previsione sia di aliquote ridotte sia di franchigie in relazione al grado di parentela del beneficiario con il disponente al momento della costituzione del vincolo.
Ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle donazioni, stando ad una interpretazione letterale e formalistica della norma non condivisa dalla giurisprudenza e dalla dottrina come di seguito si avrà modo di specificare, la tassazione scatterebbe al momento della costituzione del vincolo di destinazione, ovvero quando il disponente attua la segregazione dei beni.
La forma dubitativa è essenziale perché il dettato normativo del citato articolo 2 comma 47 della legge 262/2006 sembra troppo scarno per generare un presupposto giuridico che va a colpire la creazione del vincolo di destinazione senza degnarsi di qualsivoglia evento traslativo. In effetti l’intervento legislativo del 2006 non ha fatto altro che far rivivere l’abrogata imposta sulle successioni di cui al D.Lgs 346/1990, a cui appunto è stato aggiunto l’assoggettamento ad imposta dei vincoli di destinazione; la norma del 1990 prevedeva quale evento nativo dell’imposizione, il trasferimento di beni e diritti e in questo modo andava a disciplinare, in qualche modo, le manifestazioni di capacità contributiva seguite all’arricchimento del beneficiario.
Vediamo cosa ne pensa la Cassazione.
2 CASSAZIONE-ITER DEI DIVERSI ORIENTAMENTI
Una serie di pronunce ondivaghe e discordanti. Dapprima la Corte aveva stabilito con le ordinanze n. 3735, 3737, 3886 e 5332 del 2015 che trattandosi di vincolo di destinazione – sin dalla sua costituzione- andasse soggetto all’ imposta prevista per le successioni e donazioni in misura proporzionale dell’8%.
Tale orientamento è stato superato dalla sentenza n.21 614/2016 -che rappresenta il turning point-secondo cui l’imposta di donazione, nonché le imposte ipotecarie e catastali sono dovute nel passaggio finale dei beni dal trustee ai beneficiari, e non nel momento iniziale del passaggio dal disponente al trustee Appare, quindi, dirimente la sentenza n. 975/2018 della Suprema Corte che consolida l’orientamento espresso nella sentenza n. 21614/2016 ove si afferma che la dotazione di un trust non è da intendere quale manifestazione di capacità contributiva e come tale debba essere tassato in misura fissa.
Infine, con le ordinanze numero 734/2019 e 31445/2018 la Suprema Corte ha cercato di chiarire il regime fiscale applicabile nei seguenti casi concreti: i) Il Trust è “traslativo” ovvero comporta un trasferimento patrimoniale dal disponente al trustee e il beneficiario finale del trust è già stabilmente individuato allora verrà applicata l’imposta di donazione in misura proporzionale. ii) Il Trust è “traslativo”, ma l’intestazione al trustee del patrimonio destinato al trust configuri una situazione transitoria, allora verrà applicata l’imposizione in misura fissa, in quanto l’imposizione proporzionale si applicherà solo quando vi sarà la definitiva attribuzione dei beni del trust ai soggetti che ne beneficeranno; iii) Il Trust è “autodichiarato” si rimanda ai punti i) e ii) di cui sopra.
E bene ricordare che anche l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di merito ha sostenuto- con varie sentenze- la tesi della tassazione proporzionale solo in occasione del trasferimento finale.
In conclusione, la semplice istituzione di un vincolo di destinazione non esprimerebbe alcuna capacità contributiva, poiché questa ultima intesa come “arricchimento” del beneficiario si avrà solamente nel momento dell’ effettivo trasferimento dei beni dal trustee al beneficiario.
martedì 5 febbraio 2019
Convegno di studio: Le novità fiscali e civilistiche per il bilancio 2018 e l’unico 2019
Lo Studio Asse organizza per il prossimo 4 marzo 2019 un convegno per illustrare le novità fiscali e civilistiche in tema di bilancio di impresa e modello unico 2019.
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